Una piacevole e lunga chiacchierata con Marco Garofalo riguardo il suo ultimo libro, “Purgatorio Juve”. Si parla di fotografia ma anche di esperienze vissute, di incontri a volte fortuiti a volte programmati, di momenti intensi sia positivi che negativi. A breve ci sarà anche l’inaugurazione della mostra: giovedì 25 ottobre alle 18.00 presso le Officine Fotografiche (Milano).
Come hai deciso di intraprendere questo progetto e quando hai capito che poteva diventare tale?
Era un fine estate del 2006 ed ero in macchina. Da lì a una settimana ci sarebbe stata la prima partita di quel campionato, Rimini-Juventus. Io mi trovavo in sud Italia e ne parlavano alla radio in maniera già epica: “la prima partita del torneo del Purgatorio della Juventus che, punita, scende nei gironi della serie B”. In effetti la prima trasferta la perdo. Tra l’altro finisce 1 a 1: un inizio abbastanza tragico per una Juventus stellare. Ricordiamoci che l’estate prima l’Italia aveva vinto i Mondiali. Metà nazionale italiana era della Juve e anche metà squadra della Francia. Lo stesso Moggi in un’intervista disse che la finale dei Mondiali era Juventus A contro Juventus B.
La trasferta successiva era a Crotone. All’inizio la mia idea era quella di fare qualche trasferta nelle città di provincia e facendo tre o quattro partite. Io in quegli anni ero un fotografo di Grazia Neri e quindi riuscivo molto facilmente ad avere il pass per andare a bordo campo. Avevo individuato tre o quattro partite in città dove ho delle amicizie: pensavo di andare a trovare delle persone e, già che c’ero, fare quattro foto. La prima è per l’appunto Crotone Juve e io sono di Crotone. Chiamo mio padre gli dico “vengo giù a trovarti”.
Vado a vedere la partita ma in quell’occasione ci sono già i primi sintomi di un anno che avrei trascorso per intero nel Purgatorio. Il primo fra tutti è che a Crotone sbloccano il bilancio comunale per rifare le strade perché arrivava la Juve e questa cosa mi ha fatto capire che stava succedendo qualcosa di straordinario. Altro grande indizio: per la prima volta nella storia della tifoseria organizzata la polizia, che di solito fa cordone davanti agli stadi, fa cordone davanti all’ospedale di Crotone che è costruito di fianco allo stadio. Poiché i biglietti chiaramente erano tutti esauriti, la gente pensava bene di occupare l’ospedale per andare a vedere la partita dalle finestre. Quel giorno c’è stata un’epidemia a Crotone. Non solo: i medici si erano fatti cambiare il turno. Tra l’altro forse si vedeva meglio lì che non da bordo campo.
Inizialmente il titolo di questo lavoro doveva essere “l’Italia di serie B” perché volevo porre l’accento sulla grande provincia italiana che era ben rappresentata dalle squadre di calcio. Non se ne parlava mai ma quell’anno, i giornali, primo fra tutti la Gazzetta dello Sport, parlavano di Serie B e riempivano le pagine. Lì decido che avrei passato tutto l’anno così perché c’era qualcosa di grosso che bolliva in pentola. Era anni che cercavo anche un lavoro italiano perché lavoro molto in Africa e all’estero. Eppure mi mancava un bel lavoro da fare in Italia (non a Milano, per la quale lavoro anche molto). Cercavo una rappresentazione popolare dal nostro paese. Il calcio e la Juventus mi hanno dato il pretesto giusto.
Hai parlato di un’illuminazione e di un conseguente cambio di titolo e, immagino, di taglio. Dove hai avuto questa illuminazione?
L’illuminazione l’ho avuta a Bologna. Mi son trovato davanti il Purgatorio di Dante. Se tu hai in mente l’immagine del Purgatorio dantesco (qui a sinistra in piccolo), lo stadio del Bologna in quel momento era uguale: si entrava al buio, con quella poca illuminazione, con gli ultrà che non facevano entrare le persone perché erano in contestazione e sono entrati poi, a partita iniziata. Si dice che il Paradiso abbia una porticina piccolina, il Purgatorio una porta un po’ media mentre l’inferno un ingresso enorme.
Avuta l’illuminazione hai cambiato il modo di fotografare? I riferimenti religiosi che si incontrano nel libro li hai catturati grazie a questa illuminazione oppure li avresti fotografati ugualmente e usati nel libro?
Probabilmente li avrei visti ma non avrei dato loro tutta quell’importanza. È evidente che nel momento in cui decido di creare un accostamento tra fede calcistica e fede religiosa (cosa che non mi invento, ovviamente, ma che esiste già) ecco che tutto assume una luce diversa. Quando mi sono trovato nella Curva Ferrovia dello Spezia (dove tra l’altro ho preso le botte, come a Trieste), un finto prete si aggirava nella curva/trincea, quasi come in guerra. In realtà stava dando l’estrema unzione alla Juventus. Ecco vedere questo prete mi ha davvero colpito. Come la croce all’ingresso nel campo da gioco, ai molti calciatori che prima di entrare in campo si fanno il segno della croce. E le curve, spesso intestate a ultrà morti che diventano martiri. E lo stadio non è poi un tempio dove gli juventini ma tutti quanti fanno dei pellegrinaggi? Ecco che fede calcistica e fede religiosa tutto d’un tratto quasi coincidono.
Hai citato prima Trieste. Mi viene in mente quando nel libro parli dell’estrema destra che distribuiva dei volantini fuori dallo stadio. Ho pensato alla foto che hai realizzato a San Sabba. Hai mai percepito il fatto che per i tifosi la presenza della Juve nella loro città fosse un palcoscenico, un momento e un luogo utili per fare “propaganda” o comunque per mostrarsi al mondo e soprattutto all’Italia?
Partiamo da Trieste: mi ha colpito e fatto anche molto male vedere delle persone di estrema destra volantinare fuori dallo stadio a 200 metri di distanza dalla risiera di San Sabba. È evidente che se uno ha un minimo di sensibilità per le tragedie dell’umanità, a prescindere dalla formazione politica, non può rimanere indifferente. In generale tutti hanno approfittato della presenza della Juventus per mettersi in mostra, a diversi livelli. Uno dei livelli più importanti e che mi interessava era quello delle tifoserie. Prima ancora c’è quello della città. A Crotone hanno rifatto le strade e c’era la banda. In altre città hanno bloccato il traffico, lo stadio veniva abbellito, ripulito e sistemato. Dove possibile hanno aggiunto delle tribune. Parlo più di posti come Frosinone, Pescara…non di Napoli e Genova, con stadi meravigliosi in città bellissime e conosciute. Mi riferisco alle città di provincia.
Livello numero due: le tifoserie. Gli ultrà principalmente ne approfittano per dimostrare quanto possono essere in grado di mettere in difficoltà o comunque di competere con le tifoserie ben più organizzate di serie A (quella della Juventus). Le coreografie si sprecano quell’anno: ne fanno di meravigliose, non solamente a sostegno della propria squadra ma anche contro la Juve. A Genova neanche nella curva degli Ultras ma nella fossa dei figgi dö Zena (la tribuna centrale) espongono questo striscione enorme con scritto “in nome del popolo italiano vi dichiariamo ladri e colpevoli”. Fuori dallo stadio se ne trovavano di “arriva la Rubentus”, “Moggi mi hai rubato l’anima”, ma mi ha colpito il meccanismo per cui la tifoseria diventava giudice ed emetteva il verdetto.
Alle presentazioni devo dire che questo libro non è né a favore né contro la Juventus. Questo è un libro di cronaca romantica, se volete epica, di quell’anno. Se dentro trovate lo striscione “Rubentus” non ve la prendete. Se trovate lo striscione tenuto da un bambino con scritto “Juve vafanculo” con una “f” sola, non ve la prendete. Di fianco e quelli ci sono la passione e l’amore incondizionato per la Juventus. Le persone che non avevano mai visto la Juventus (non parlo solamente di bambini ma anche di adulti) hanno fatto carte false per entrare negli stadi e andare a vedere i loro beniamini. È stato un anno veramente di passione pura. Devo dire che gli juventini hanno capito il taglio un po’ ironico, un po’ epico e un po’ grottesco di quell’anno.
Il momento dove ti sei sentito quasi impotente o in pericolo e il momento che ricordi con più piacere?
Di ricordi piacevoli devo dire che ne ho diversi. Da fotografo devo dire che molti ricordi sono quelli in cui associo una fotografia ben riuscita. È un po’ come nei film, dopo il sesso ti accendi la sigaretta. A volte quando faccio una bella fotografia e dico “wow, ho la foto” mi accendo una sigaretta. Sono poche queste volte. Un esempio è il calcio d’angolo a Frosinone di Del Piero.
Benché sia un po’ storta, con un taglio che non segue una linea ben precisa, contiene tutto quello che cercavo quell’anno. Cercavo la stella del calcio internazionale Alex Del Piero che batte il calcio d’angolo in uno stadio che potrebbe essere quello dell’oratorio. Si notano i fotografi impazziti con il teleobiettivi (io avevo i grandangoli e molti fotografi mi hanno preso in giro, quell’anno, a bordo campo) e tutta la gente che guarda dai balconi e dai tetti dei palazzi costruiti intorno allo stadio.
Bei ricordi sono legati anche agli incontri con le persone, ai racconti e che sono finiti dentro le cronache. La fotografia di Elvis e Platini, una delle mie preferite, l’ho scattata durante Pescara-Juve. Ero a Chieti, in realtà. Come ti dicevo quell’anno me lo sono anche un po’ prodotto in economia. Ho degli amici fotografi a Chieti e mi hanno ospitato. La mattina del giorno della partita mi sveglio, scendo per andare a Pescara e sento a poche decine di metri della musica venir fuori da un garage, uno di quelli vecchio stile. Elvis Presley. Mentre mi avvicino noto che sulla porta del garage aperta c’erano due immagini. Uno era riconoscibile perché era la facciona di Elvis e l’altro era un giocatore di calcio. Nella mia mente dicevo “fai che sia un giocatore della Juve”. Era Michel Platini. Entro e vedo questo vecchietto che era lì che trafficava con le sue cose. Attacco bottone, una delle armi più importanti in fotografia. Mi bevo un bicchiere di vino con lui e chiedo per quale motivo avesse attaccato queste due immagini. Mi dice che sono i suoi due miti. Tutto a un tratto entro nella “nella caverna” e ho a che fare con la mitologia: due icone della mitologia che lui ha unito nella porta del suo garage. Sigaretta accesa (ride, NdR).
Invece momenti in cui mi sono trovato in difficoltà sono state le due volte dove sono stato malmenato, nella cura della Triestina e dello Spezia. Sebbene io avessi il permesso del capo della curva (non puoi entrare con la macchina fotografica in una curva di ultrà. Le poche volte che non ho avuto il permesso me la sono gestita diversamente), a Trieste e a La Spezia alcuni non lo sapevano. Ubriachi e fatti mi hanno malmenato e preso a spintoni. Lì me la sono vista un po’ brutta. A Trieste, per esempio, mi hanno menato in due. Ho gridato. Il capo della curva mi ha sentito, è sceso e ha menato loro. Io addirittura mi sono messo in mezzo per difenderli. Probabilmente li stava menando perché erano ubriachi, non per quello che avevano fatto a me.
Devo comunque dire che nelle curve, in particolare quelle di serie B, i codici d’onore e di vita ultrà sono ancora ben delineati. Forse per il fatto che le curve sono piccole, sono sempre piuttosto ben organizzate e si conoscono tutti per cui ci tengono affinché le cose filino lisce.
Tolta la tua, nel libro sono presenti tre prefazioni molto diverse tra di loro: la prima di Ezio Greggio l’ho trovata calda e da tifoso sanguigno: arriva a offendere la serie B e alcuni ordini lavorativi. Quella di Sandro Veronesi, razionale e positivista. Poi c’è la terza di Mario Desiati, autobiografica e romanzata che si basa anche sui ricordi. All’interno del libro riesci a ricondurre delle foto alla prima, alla seconda e alla terza prefazione?
Per la prima ho in mente questa foto. Siamo a Napoli siamo nella Curva B e io sono in mezzo agli ultras del Napoli e Fedayn. La curva A mi aveva molto candidamente detto “qua tu non ci stai”. La curva B è comunque abbastanza tosta. Sono persone con un carattere forte individualmente, in gruppo lo sono ancora di più. Vengo messo in contatto con Enzo Busiello che è il capo degli ultras Napoli. Ci diamo appuntamento a Napoli arrivo in stazione e al telefono chiedo “come mi riconoscete?”. Mi risponde dicendomi “non ti preoccupare: sento l’odore dei milanesi”. Effettivamente mi riconosco: erano in quattro. Mi metto in mezzo al sedile di dietro e a un certo punto mentre ci avviamo verso la sede del club uno di loro si gira verso di me mi dice “io non ero d’accordo a farti entrare in curva però Enzo è il capo ed Enzo decide. Enzo ha detto di sì per cui mi va bene ma se hai intenzione di fare un libro alla Saviano ti vengo a prendere a casa”. Questa è stata la premessa. Da quel momento, di tensione, non credo di essermi sentito più protetto come nella curva del Napoli. Mi portavano a mangiare, a bere. Siamo andati poi a fare il giro nei Bassi a trovare tutti i capi ultras diffidati, agli arresti domiciliari. In curva nessuno mi ha torto un capello. Nel gol dell’1 a 0 mi pare la curva del Napoli è esplosa, come si può vedere nella foto. Qui si pone il problema del fotogiornalista coinvolto: devi decidere se interagire/festeggiare o fotografare. Lì c’è un’esplosione che ti entra nel corpo, ti fa vibrare tutto. Ti viene una pelle d’oca “così”. Te la vuoi anche un po’ godere quell’emozione. Noi cerchiamo le emozioni: un po’ da vivere personalmente, un po’ da buttare dentro le fotografie. Lì ero talmente buttato a destra e a sinistra che chiaramente sono venute mosse ma perfette (sorride).
Sandro Veronesi è un grandissimo narratore ed è anche il ghostwriter di Del Piero. Scrive molti libri per la Juventus ed è uno juventino super appassionato. Quando ha visto alcune mie foto mi ha voluto conoscere: abbiamo fatto tre ore nel suo studio e voleva sapere tutto di quell’anno. I racconti, i particolari, gli aneddoti. Nella sua prefazione, troppo lusinghiera secondo me nei miei confronti, coglie in profondità l’anima del tifo e anche del mio lavoro non inteso come lavoro di Marco Garofalo della Juventus ma proprio del nostro lavoro, cioè quello di mettere, come dice lui, “il pollice nella minestra”: di sporcarti, di scottarti, di avere un punto di vista da dentro, pur mantenendo quella distanza e quella freddezza che fa la differenza.
Sono andato alle partire perché volevo fare le foto, pur sapendo che avrei conosciuto un mondo per me sconosciuto (che non mi piaceva nemmeno), decidendo di calarmi completamente in quella realtà, con tutti i rischi e i privilegi annessi. Una foto da accostare al testo di Veronesi può essere questa fatta ad Arezzo, quando hanno praticamente vinto il campionato di serie B con tre giornate di anticipo: rappresenta un po’ il gruppo e lo spirito della squadra. Un abbraccio quasi infantile che può richiamare la figura del “pollice nella minestra”.
Magari qui colpisco la sensibilità degli appassionati di calcio, ma questi giocano a pallone. Calciano un pallone e sono miliardari. Sono sicuramente personaggi privilegiati e che hanno e mantengono quest’animo un po’ infantile, fanciullesco, del giocare e dell’abbracciarsi quando uno fa gol. È bellissimo ed emozionante. Questi undici rappresentano un giocattolo e parlare di quel giocattolo con certe persone significa parlare di qualcosa di estremamente prezioso, cosa che traspare anche nel testo di Veronesi.
La terza è di Mario Desiati che a dir la verità non ho ancora conosciuto di persona. L’editore voleva inserire nel libro una parte un po’ narrativa perché Milieu fa molti libri di narrativa. Serviva uno scrittore che si calasse un po’ meno nelle cronache calcistiche e un po’ più nella narrazione familiare di quell’anno. Mario Desiati lo fa con questo testo molto lungo e molto bello secondo me, autobiografico. Parla, da pugliese, di un amore incondizionato verso una squadra di calcio, tanto da litigare con i parenti che non tifano per quella squadra. Forse la foto di Elvis e Platini potrebbe essere quella più simile, dato che è la foto meno calcistica del libro.
Do per scontato che hai avuto potere decisionale su quasi tutta la fase di edizione. Perché hai scelto questo formato? Questo libro al suo ritmo: ci sono 20 partite, quindi 20 capitoli, 20 cronache. All’interno di ogni capitolo hai cercato un equilibrio?
La scelta delle fotografie è principalmente la mia, anche se poi ho rimaneggiato gli archivi tante volte insieme a Giovanna (Calvenzi) che Raffaella e altre persone come l’editore, per avere uno sguardo esterno, oggettivo sulle fotografie stesse. I motivi per cui noi fotografi scegliamo le foto sono diversi rispetto a quelli di giornalisti, scrittori o altre persone. Noi siamo troppo emotivi scegliamo delle fotografie che ci ricordano l’emozione vissuta mentre scattavamo, probabilmente. In maniera fredda e un po’ professionale è ovvio che dobbiamo fare i calcoli anche legati più allo storytelling (questa parolaccia).
Considerando che questo è un lavoro lungo un anno diventa delicato: devi stare attento a degli equilibri. Devi raccontare l’emozione della partita, l’emozione dei tifosi e della città che ospita la partita, la curiosità. All’inizio di ogni capitolo c’è sempre una fotografia di apertura curiosa o che racconta l’emozione o l’ingenuità della provincia. Ci sono poi delle fotografie che si prestano di più ad essere messe in doppia pagina, per dare loro un respiro e una visibilità maggiore. Altre foto che invece non sono così importanti a livello fotografico ma lo diventano a livello di racconto quindi le ho messe in dimensioni più contenute.
Nel libro spesso ci sono dei dittici. Mi viene in mente quello con la mascotte e il frate. A volte pensi, involontariamente o anche volontariamente, di aver giudicato le persone che avevi davanti? Ho citato questo dittico perché lo trovo molto dissacrante.
In questo dittico siamo a Lecce. Questo è un vero frate, famoso per essere anche un ultrà, e qui c’è la mascotte della squadra. Ho cercato in maniera più o meno forzata o più o meno visionaria di accostare sacro e profano. Sai, questa è una mascotte che indossa un costume. Anche il frate indossa un costume (il saio che rappresenta la fede, la preghiera, la povertà). Sono entrambi costumi, delle maschere. Tutti e due hanno un elemento che riporta al Lecce.
Chi guarda le fotografie vede un po’ quello che vuole. La verità, per me che ho scattato in quel momento, è fatta dalla realtà e dal mio punto di vista. Quando tu guardi questa fotografia sei dentro la tua realtà, quindi c0è il tuo punto di vista e quindi la verità cambia. Ognuno vede quello che vuole in base alla propria esperienza, alla propria cultura personale e fotografica. Io ho un mio concetto di fede un po’ personale che prescinde chiaramente dal costume: con questo dittico ho voluto crea un corto circuito. Un po’ tutto il libro si basa su questo.
Voglio sfogliare il libro avendo una colonna sonora: quale?
In qualche maniera mi è facile rispondere perché nel primo editing che avevo fatto di questo lavoro, qualche mese dopo la fine del campionato, avevo fatto un piccolo video di presentazione da mandare in giro e come colonna sonora avevo messo una canzone degli A Perfect Circle, Passive. Un po’ perché è bella rock, epica, un po’ perché parla del “perfect enemy”. La Juventus è stata un perfect enemy, quell’anno. Mi piace perché c’è un prologo, di attesa, e una parte più pestata e forte. (Qui sotto, invece, il booktrailer ufficiale).
Questo lavoro prenderà altre forme di pubblicazione diverse dal libro?
Finalmente il 25 ottobre ci sarà la prima mostra presso Officine Fotografiche Milano (sotto, l’invito). Seguiranno probabilmente altre tappe come Roma, Urbino, Lodi (stay tuned, NdR).